Dall'Iran al Pakistan, Zahedan-Mirjaveh-Taftan-Quetta, viaggio attraverso l'inferno

Cominciammo il nostro viaggio attraverso l'inferno alla mattina presto.

Dopo aver lasciato Bam entrammo presto nella giurisdizione di Zahedan e dopo aver passato un paio di controlli di polizia una guardia salì con noi per la nostra protezione. Cosa potesse fare un poliziotto in caso di aggressione contro di noi, non ci fu mai chiaro. Più che protetti ci sentivamo noi i sorvegliati. “Fate in modo che se ne vadano il più velocemente possibile.” Questo ci sembra l’ordine impartito dall’alto.

A Zahedan cominciò il balletto dei passaggi di consegna. Noi eravamo il pacco bollente. Cambiammo quattro volte vettura di polizia stavolta con due o tre poliziotti che tenevano il fucile mitragliatore appoggiato alle nostre gambe. Il freddo contatto con il metallo dell’arma mi faceva più paura del pensiero di essere rapito o rapinato. Mi era insopportabile stare così vicino a uno strumento fatto per uccidere. E se ci fosse stato un tentativo di rapimento avrebbero cominciato a sparare? Questa era il mio più grande incubo.

I poliziotti erano cortesi e sorridenti. Sembravano contenti di aver due ospiti stranieri con loro e non lesinavano chiacchiere superflue e inviti a pranzo che rifiutammo. Ad ogni controllo dovevamo scrivere a mano i nostri dati e numero di passaporto in enormi e pesanti quaderni, alla faccia della tecnologia nucleare che stavano sviluppando in Iran. Diedi un’occhiata alla lista degli stranieri che erano passati di lì. Una decina in dicembre, forse il doppio in Novembre. Questi erano i temerari che attraversavano il confine nonostante gli avvisi dei loro stati di non andare in quella zona pericolosa. Effettivamente sorvolare il confine sarebbe stata la cosa più semplice, ma anche contraria al nostro spirito overland e alla voglia di vedere con i nostri occhi e toccare con mano. La comodità è nemica della verità e della scoperta.

Fummo costretti a prendere un taxi che letteralmente volò a centosessanta-centottanta chilometri orari lungo i circa ottanta chilometri che separano Zahedan da Mirjaveh, il confine con il Pakistan.

Erano le tre e arrivammo al confine. Una sgradevole sorpresa ci attendeva. Il confine, nonostante l’orario, era già chiuso. Un pakistano che andava dalla Siria al nord del Pakistan aspettava con la moglie ed enormi bagagli. Il confine era totalmente deserto senza nemmeno una guardia. Un vento freddo spirava tra i pochi edifici svuotati sollevando sabbia. Lo scenario era da film dell’orrore dove ad un certo punto compaiono zombi o creature aliene e mostri sotterranei. Spettrale. Vagammo un po’ e arrivammo praticamente a toccare il Pakistan con il desiderio di attraversarlo. Era possibile visto che non c’era nessuno. Franta trovò un modo di entrare nella terra di nessuno tra i due Paesi, ma non ci azzardammo a metterci piede. Pochi minuti dopo vedemmo passare delle jeep di pattuglia.

Sicuramente non volevamo passare all’addiaccio la notte in quel paesaggio inquietante e in un certo modo surreale. In quella zona di trafficanti non sarebbe stato il caso di farsi trovare all’aperto in piena notte, anche se lo stupore degli autisti col loro carico di illegalità, principalmente droga, sarebbe stato pari al nostro una volta faccia a faccia. Di certo non si aspetterebbero mai di trovare due backpacker per strada di notte.

Trovammo rifugio con la coppia di pakistani in un albergo infimo vicino all’area di confine. Inaspettatamente la cena fu superba. Incredibile mangiare così bene quasi quanto il miglior ristorante a Esfahan in quell’angolo dimenticato dell’Iran. Franta ebbe occasione di sfoderare ancora il suo russo con un camionista iraniano che seguiva tutte le rotte dell’Asia Centrale includendo Afganistan e Iraq fino all’Europa.

Al mattino ci svegliammo con la nostra solita calma. Di farsi una doccia non se ne parlava nemmeno in quelle condizioni. Ci dirigemmo verso il confine e quasi senza accorgersi lo oltrepassammo.
Appena uscimmo dall’Iran ci trovammo davanti ad un tavolino in plastica con due sedie e due persone sedute. Pensavamo fosse ancora Iran o un punto di transizione e invece appena mostrato i nostri passaporti e fatto due passi ci trovammo la scritta “Pakistan”. Ci guardammo indietro. Gli edifici iraniani erano puliti e ben organizzati, e apparentemente il confine era rappresentato da un vecchio tavolino da giardino sotto un ombrellone.

Oltre il cartello “Pakistan” c’era una terra desolante. Sporcizia ovunque che si ammassava contro il filo spinato, gente che non faceva nulla se non aspettare Godot o la notte per i propri traffici. L’impatto con il Pakistan non fu uno dei più positivi, limitiamoci a dire così. Fu il primo contatto con la realtà di ciò che avremmo visto per un bel po’ di tempo da lì in avanti. Ci lasciavamo alle spalle lo sviluppato Iran, organizzato e abbastanza pulito, almeno a modo suo. In Iran potevamo bere acqua senza problemi e non preoccuparci dell’insalata fresca nel nostro piatto. Dal Pakistan fino a Katmandu, non potevamo più farlo senza il rischio di correre spesso al bagno.

Fummo subito accolti da cambia valute e da una persona trasandata che si presentò come addetto al confine e ci indicò un edificio che sembra più un bagno comunale che un posto di controllo. Entrammo e all’interno c’erano moderne tecnologie che registrarono il nostro ingresso e ci fotografarono una strana contraddizione, ma non ci stupì. Scoprimmo che il nostro visto era valido per altri trenta giorni dalla data di ingresso e c’incazzammo con noi stessi per aver attraversato l’Iran di corsa per niente.
Dopo la registrazione fummo accompagnati alla dogana e poi ancora scortati al posto di polizia di confine dove ci fecero compilare per la terza volta un formulario e scrivere in nostri dati sul solito spesso e vecchi quaderno. Dopo aver aspettato per un’ora venimmo accompagnati al villaggio, Taftan. Fummo scaricati davanti ad un’agenzia viaggi e costretti a comperare il biglietto lì in quanto c’era solo un autobus che partiva per Quetta quel giorno, o almeno ci fecero capire che dovevamo comperare il biglietto lì. L’autobus partiva alla quattro del pomeriggio, orario che ci sembrava perfetto visto che ci aspettavamo un viaggio di 14 o 16 ore e saremmo arrivati al sorgere del sole nella capitale del Balucistan dove non volevamo passare nemmeno un minuto.

Aspettammo la nostra guardia al ristorante e ci ordinarono di non muoverci da lì per la nostra sicurezza. Ci aspettavamo facce losche e sguardi da lupo che vede la preda, e invece al ristorante passammo una piacevole ora in attesa del nostro autobus e della nostra mezza guardia cazzeggiando in “non-inglese” coi ragazzi del ristorante. La nostra scorta consisteva in un soldatino scala uno a quattro alto circa un metro e cinquanta e mingherlino, con due baffetti e una coperta che fungeva come sacco e alla quale noi facevamo da guardia mentre lui si assentava.

Franta andò in giro e tornò con dei viveri per il lungo e saltellante viaggio e mi disse che la gente era normale lì, anzi simpatica. Probabilmente la gente del villaggio era tranquilla perché a casa dei trafficanti non succede mai nulla. Ci chiedemmo che tipo di accordi ci fossero tra trafficanti e polizia per evitare una vera e propria guerra. Un compromesso in quella terra dimenticata da tutti gli dei di qualsiasi religione era inevitabile per poter sopravvivere.

I nostri bagagli furono catapultati sopra l’autobus e accatastati assieme a valigie e sacchi di vario materiale. Con nostro sommo dolore i nostri posti erano tra gli ultimi. Questo volle dire che eravamo nella parte più saltellante dell’autobus, e non bastarono i fiorellini di plastica che facevano da cornice e che venivano di tanto in tanto spruzzati con del profumo per dargli la parvenza di fiori veri a rallegrarci. Sapevamo che i 600 chilometri di strada erano parzialmente asfaltati e al governo della provincia di Quetta non interessa eliminare le cunette lungo tutto il tragitto avendo per altri problemi di ordine pubblico da tenere a bada. Subito dopo 200 metri capimmo che sarebbe stato difficile tenere tutti gli organi al loro posto durante il viaggio e che il saltellamento era ancora più accentuato sui nostri sedili. I cinque o sei controlli di polizia erano un sollievo perché ci permettevano di rilassarci per qualche minuto. C’erano i soliti quaderni da riempire un paio di volte dovemmo farlo alla luce di una pila in una casetta di lamiera, questi erano i posti di blocco lungo un tragitto altrimenti deserto. Prima del calar del sole dietro di noi vedemmo un paio di cammelli che vagavano solitari e un paio di dune tra il piatto deserto pietroso. Avevo letto che a volte i trafficanti cuciono la merce sotto la pelle del cammello che era stato precedentemente ammaestrato ad attraversare il deserto da un preciso punto ad un altro come una sorta di piccione viaggiatore, un “cammello viaggiatore” A nord ci lasciavamo le montagne che nascondevano l’Afganistan e dietro di noi l’Iran con un po’ di nostalgia. In qualche modo riuscimmo pure a dormire nonostante l’aggiunta di un assordante musica pop pakistana e delle luci da albero di natale. La nostra mezza guardia ci lasciò a metà strada e in cuor nostro non ci sentimmo ne’ meglio ne’ peggio.

Arrivammo a Quetta molto prima del previsto in un buio vicolo fangoso, e questo non fu una cosa buona. L’autista pazzo che ci faceva rimbalzare sui saltellamenti a velocità poco raccomandabili impiegò solo undici ore e mezza. Fortunatamente i miei organi non s’erano mescolati nonostante fossero stati dentro uno shaker per ore, ma questo mi consolò ben poco vista la situazione in cui ci trovavamo al momento.

PAURA.

Gente che non riconoscevamo tra i passeggeri ci passavano accanto come fantasmi osservandoci. La luce era poca e si riusciva a malapena a riconoscere la sagoma dei bagagli che venivano scaricati e lanciati dall’alto. Recuperammo i nostri prima che scivolassero a terra sul il fango. Il freddo aumentavamo la sensazione di sconforto e di spavento. In aggiunta, impreparati come eravamo, non avevamo nessuna mappa di Quetta e nessun indirizzo di alberghi raccomandabili. Se avessimo chiesto a una delle scure facce che sedevano come avvoltoi dentro ai pochi risciò, saremmo stati delle facili prede. Ma che fare? Quetta non è raccomandabile per i forestieri dopo il calar del sole soprattutto se il colore della pelle è bianco. Mio zio mi disse di non rimanere a Quetta se non il minimo necessario perché lì è facile fare incontri sbagliati. Temetti di aver già perso i nostri bagagli e speravo che non accadesse nulla di sgradevole alla nostra persona.

Forse qualcuno lassù lesse la mia paura e ci venne in soccorso sotto forma di due ragazzi di Lahore con i quali avevo scambiato quattro chiacchiere durante una delle fermate lungo il tragitto alla luce dei fari dell’autobus. Non avevano intenzione di rimanere a Quetta e volevano prendere il primo autobus o treno che lasciava la città. Mi accorsi che erano spaventati pure loro quando ci dissero che la loro speranza era di arrivare e lasciare la città prima che tramontasse il sole, ma che purtroppo l’unico autobus era quello. Erano dei giovani che viaggiavano per affari e avevano al seguito un portatore. Mi sembrarono la stella polare della mia notte.

Seguimmo i due giovani fino alla stazione degli autobus. Il primo autobus per noi e per loro era in programma solo dopo una decine di ore. Concordammo col loro consiglio di non aspettare nella stazione poco accogliente, ma di prendere tre risciò e andare alla stazione dei treni dove avremmo potuto prendere il treno dopo circa tre ore.

Contrariamente alle altre grandi città la stazione dei treni era chiusa e dovemmo aspettare fuori in una notte fredda e nebbiosa. Lentamente ci stavamo congelando e cominciammo a correre avanti e indietro e a fare esercizi ginnici per scaldarci dopo che ci coprimmo con tutto quello che avevamo. Per terra c’era una famiglia di senza tetto che dormiva sotto delle coperte che non sembravano affatto poterli scaldare. A tratti si sentiva un bambino o un vecchio tossire. La paura aveva lasciato spazio alla tristezza di quella scena e al fatto di non poterli aiutare con nulla. In quel momento nemmeno i soldi avrebbero potuto aiutare perché non ti puoi scaldare con quelli.

Mi sentii al sicuro e questo mi aiutò a scambiare un paio di battute per cercare di tirar su il nostro morale finito sotto i tacchi. Uno dei nostri compagni di avventura ci disse che l’assistente di viaggio alla stazione degli autobus gli diede un consiglio che lui non seguì. L’assistente era un uomo alto con barba incolta e uno sguardo fiero che continuava a fissarci mentre parlava con loro. Era avvolto in una coperta multifunzione come tutti usano da quelle parti. Mi sembrò una persona forte che cercava di aiutarci e quando andammo via non mi sembrò una buona idea lasciarlo. Il suggerimento che diede ai due pakistani che erano con noi era più o meno il seguente: “Meglio che lasciate da soli questi due, altrimenti potreste finire nei guai pure voi.” Rimasi raggelato a tal punto che il freddo della notte mi sembrò bollente. La mia mente produsse un centinaio di scenari dove io finivo bastonato e senza zaino nella migliore delle ipotesi o sanguinante e mezzo nudo sul fango nella peggiore. Anche loro avevano avuto paura e si chiedevano perché avevamo scelto quel tragitto così pericoloso per noi. In quel momento me lo chiesi anch’io e non trovai una valida risposta.

Passammo la freddissima nottata orami al sicuro e non appena aprirono le porte della sala d’aspetto ci tuffammo sopra la stufa per scongelarci. Franta era quello che aveva sofferto di più. Nonostante tutti gli indumenti che s’era messo addosso e che dovevano servire solo contro il freddo himalayano non riusciva a scaldarsi, e ripeteva in continuazione “fa freddo, fa freddo”, il che non lo aiutava e non aiutava nemmeno noi e aumentava la sensazione di freddo con l’autosuggestione negativa che si ripeteva anziché tentare di contrastarla.

I nostri salvatori ci aiutarono ulteriormente quando ci accorgemmo di non aver rupie pakistane a sufficienza per pagare il biglietto del treno per Multan, la nostra prossima meta. Non c’erano bancomat, ne’ uffici cambio. Ci cambiarono dei dollari e potemmo salire sul treno, lontano da Quetta, lontano dal freddo, lontano da quella pessima sensazione alla ricerca di qualcosa di positivo in Pakistan, come le due persone che ci aiutarono quella notte.

Commenti

Opzioni visualizzazione commenti

Seleziona il tuo modo preferito per visualizzare i commenti e premi "Salva impostazioni" per attivare i cambiamenti.

Cazzo Quetta... e la sua

Cazzo Quetta... e la sua scomoda verità...

ti dico solo che ho avuto

ti dico solo che ho avuto piu' paura di quando... non serve che continui.

racconta cosa fa la

racconta cosa fa la gente.
come vive? lavorano? dove trovano ciò che mangiano? hanno un piccolo orticello dove coltivano solo ciò che gli serve e se ce la fanno vendono quello che avanza?
o sono tutti poliziotti o contrabbadndieri? (o tutte e due le cose insieme?)
e a chi contrabbandano? tra di loro?

e chi credi che io sia?

e chi credi che io sia? tiziano terzani? :-)
ho capito faro' piu' attenzione a quanto suggerito. comunque vuol dire che almeno leggi quello che ho scritto. lo fai per distrarti dall'ansia paterna?
In realta' quando osservo le persone non mi salta agl'occhi niente di straordinario o curioso. Orami tutto rientra nella "normalita'" delle cose. Ti anticipo solo che in Iran non cambia molto dal nostro mondo. Essendo un Paese abbastanza sviluppato (togliendo la componente religiosa) la gente vive piu' o meno come da noi. Negozi, horeca, lavoro in fabbrica, pubblica amministrazione, agricoltura e i vari canali distributivi, turismo e rompimento di balle nel cercar di vendere ai pochi "bianchi". E i soliti neolaureati disoccupati. Non si fa' la fame in Iran. Le case, magari non bellissime e a volte con dei lavori da fare, ma pur sempre case.
In Pakistan e' un po' diverso. forse la differenza sono nei ristorantini un po' piu' sporchi e sembrano poveri. Le case, nelle citta' che ho visto io, sono come in Iran, un po' prese peggio con l'elettricita' che va e viene piu' frequentemente (colpa degli indiani, ovviamente). Appena fuori, invece ho visto delle baracche in mattoni di fango, magari coperte con un telo blu. Sembra che ci sia una baraccopoli a Karachi. Comunque non mi sembra siano in molti a togliersi da mangiare dalla bocca per poter raccimolare qualche soldo in piu'. Spesso, in citta' e' come in Iran, sicuramente meno sviluppato e ordinato o pulito. E' altresi' vero che in Iran e in Pakistan i lavoratori nei negozi o nei ristoranti o alberghi guadagnano quanto basta per mangiare e non possono permettersi nessun tipo di agio. Solo in campagna coltivano, e gli agricoltori mi sembra se la cavino bene. Solo chi vende i prodotti agricoli che li vedi magri, ma che cercano di vendere fino all'ultima banana marcia. Non so chi si prenda di soldi. A Quetta, lungo la strada per uscire dalla citta', ho visto molta sporcizia e bracche. Immagino non se la passino bene... Non ho visto la baraccopoli di Karachi, che sembra sia la piu' grande dell'Asia, almeno a detto di chi vive nelle baraccopoli di Bombay e mi ha fatto da quida in un"baraccopoli tour" (qualcosa di molto interessante che vi raccontero').
Non ho visto mendicanti in giro. Almeno non di piu' di quanti se ne possano vedere a Milano.
Ovviamente l'India e' qualcosa a parte.
Al confine tra iran e pakistan ci sono negozi, la gente vive come da altre parti del paese, cioe' ci sono gli afecionados delle caffeterie che non fanno un cazzo. Contrabbandano soprattuto droga e benzina, la mafia pakistana che commercia con la controparte iraniana e la polizia in mezzo che a volte cerca di fermarli. mi sembra che gli iraniani ci mettano un po' piu' di impegno. Non e' una guerra aperta, e anche se nessuno lo dira' mai, mi sembra ovvia la convivenza e l'accordo tra forze dell'ordine e contrabbandieri per non pestarsi i piedi a vicenda e fare casini ben piu' grandi. Un dare e avere bilaterale. Alcuni polizziotti mi sembravano dei magnacci.
Soddisfa un po' la tua seta di "vedere"?

ciao andrea! Grazie per tutte

ciao andrea!

Grazie per tutte le descrizioni del tuo viaggio, mi sono molto utili in quanto sono in preparazione dello stesso viaggio.
Ti vorrei chiedere un favore, magari è troppo, puoi scrivermi in privato (se riesci a vedere l'email scritta nel form se no su barbo24@libero.it) ? Vorrei chiederti alcune informazioni, forse è da eccesso di paranoia, ma nonostante sia un viaggiatore abbastanza esperienziato l'attraversamento del pakistan non mi lascia ancora così tranquillo e mi rassicurerebbe parlarne con qualcuno che l'ha fatto!

Ti ringrazio molto!!

Simone