16.04 Monte Elgon, dall'Uganda al Kenia a piedi 2

Raggiungemmo il confine col Kenya accompagnati da una incessante pioggerellina fastidiosa. Lungo il sentiero vidi un sliver cat morto. I ranger si fermarono a lungo discutendo sulle cause della strana morte. In lontananza vedemmo dei bracconieri che si allontanavano da noi. Patrick rimase a fissarli a lungo indeciso sul da farsi. Erano lontani e irraggiungibili a piedi. E poi dovevano scortarci fuori dal Paese. Si vedeva che la cosa gli bruciava dentro. Avrebbe voluto corrergli dietro. Inseguirle, fermarli e bloccarli. Fargli passar la voglia di cacciar di frodo. Scosse la testa e proseguimmo.

Superammo un paio di ruscelli gonfi d’acqua per le continue piogge e giungemmo ad una vallata tagliata in due da un fiume. La zona si chiamava Hot Spring, solo che i militari kenioti non si vedevano. Ci mettemmo al riparo sotto un muro di roccia sporgente e aspettammo.

Aspettammo.

Aspettammo.

Si sentirono due lunghi fischi. I nostri ranger si alzarono di scatto in piedi. “Sono arrivati. Ci aspettano sull’altro lato del fiume. Andiamo.” Io non vedevo nulla, ma se loro dicevano che c’erano, perché non credergli.

Scendemmo al fiume e finalmente vidi le divise verde militare di un gruppetto di soldati. Erano cinque ad attenderci. Due avevano il passamontagna, tutti imbracciavano il fucile e alcuni avevano la fondina con la pistola. L’immagine che scorreva nella mia mente mentre gli andavamo incontro era quella de “Quella sporca dozzina”. Mi chiesi se ci stessero consegnando ad un commando di ribelli, che in un recentissimo passato bazzicavano in quelle zone. La tensione si sciolse quando uno dei soldati, un po’ grassottello e con una risata alla Eddy Murphy ci diede il benvenuto.
Mentre i due eserciti scambiavano sigarette e completavano la parte burocratica del passaggio del confine, mi rilassai e cercai un posto meno bagnato dove sedermi e salutare l’Uganda.

Ci incamminammo e chiesi ad uno dei soldati. “L’accampamento dove pernotteremo è qui vicino?”
Mi guardò come se non capisse. “Vi portiamo a fondo valle in un veicolo. Il campo è troppo lontano sono 42 chilometri da dove ci stanno aspettando con la jeep.”

Passai nella mente le informazioni e poi dissi: “Oh.”

“Abbiamo ordini di portarvi lì.” Non mi sarei mai sognato di contraddire un ordine dato alla sporca metà dozzina, meno uno. “Ora camminiamo per dieci-quindici chilometri fino al veicolo.”
“Ve bene… come? DIECI-QUINDICI CHILOMETRI?” un’altra decina di chilometri sotto la pioggia che si faceva a tratti più forte non era quello che mi aspettavo.

Mi guardarono in modo beffardo. Leggevo nei loro occhi “Oh, il signorino è stanco. Vuole fare il figo attraversando la foresta e ora piagnucola per un po’ di pioggia. Che fighetta.” No. Non glielo permettevo.
“E allora che aspettiamo. Alzatevi e andiamo.”

Non c’erano sentieri da seguire. Quando tutto è acqua non ci sono più sentieri. Si camminava tra l’erba alta non vedendo dove si metteva i piedi. Il problema non era più quello di tenere i piedi asciutti. Quelli navigavano già da tempo dentro alle scarpe. La difficoltà stava nel cercare di mettere il piede dove l’acqua non fosse più alta di cinque sette centimetri evitando le buche di mezzo metro. Col bastone di bambù testavo il terreno davanti a me ad ogni passo rallentando ancor di più la marcia.

Ad un certo punto ci trovammo di fronte ad una pozza d’acqua e non si intuiva il fondo . Cercai di avanzare verso destra.

“No, non da quella parte. Segui me.” Disse la risata di Eddy Murphy. Lo seguii. Appena mise il piede in acqua sprofondò fino al ginocchio. Estrasse rapidamente la gamba, ma lo stivale di gomma rimase piantato nel fango. Perse l’equilibrio e piantò il piede dieci centimetri sott’acqua assieme al calzino. Si girò verso di me e fece una delle sue risate. Non potei trattenere una sonora risata che per poco non mi fece perdere l’equilibrio e cadere di faccia nella stessa pozza.

Per diverse ore eravamo attorno ai 4000 metri sotto l’incessante pioggia. Lentamente scendemmo e cominciammo a vedere degli alberi. Dietro ad essi una strada di fango e un veicolo militare ad aspettarci. Eri un camion con ruote enormi per poter avanzare in quelle condizioni. Ci sedemmo sul retro del camion, dove solitamente si mettono gli equipaggiamenti militari, con la faccia rivolta verso l’esterno, schiena contro schiena coi nostri compagni di viaggio in una fila centrale. Eravamo coperti, ma le parti laterali erano aperte e la pioggia continuava a bagnarci e schizzi di fango ad coprirci.

Il viaggio durò un paio d’ore. Avanzavamo lentamente con continui scossoni. Le ruote scivolavano dentro ai canali fangosi e più che guidare, l’autista faceva scendere il camion accompagnando il veicoli dove la strada lo voleva farlo andare. Più volte sbandammo lateralmente inclinandoci di parecchi gradi. Non so come quel mezzo militari potesse resistere alla legge di gravità e non capottarsi. Più volte vidi il terreno avvicinarsi velocemente al mio volto, ma quando pensavo “questa è la volta buona”, l’inclinazione restava sospesa per il tempo di un respiro trattenuto e un colpo di sterzo rimetteva il mondo in equilibrio. A metà strada incrociammo un trattore che era venuto alla nostra ricerca in caso avessimo avuto delle difficoltà, e ne avemmo. Per due volte dovemmo legare il camion al trattore che ci tirò fuori dalla nostra situazione di fangoso stallo. Un paio di volte sbandammo talmente che evitammo il peggio solamente grazie a gli alberi che costeggiavano sui quali ci appoggiamo di lato e che ci sorressero come braccia forti che accompagnano un ceco.

I soldati con noi ridevano. Erano abituati. Scherzavano delle situazioni dove rischiavamo di cadere fuori dal camion o quando eravamo a pochi istanti dal rovesciarsi lateralmente. Io non mi sentivo tranquillo. Era una di quelle situazioni dove ci si chiede “Perché? Chi me la fatto fare? Sono un idiota a essere venuto qui. A ‘fanculo la mia avventura. Questa è la prima e l’ultima volta.”

Era buio e fui sollevato quando vidi le luci del campo. Ci piantammo ancora una volta prima di arrivare a destinazione e il trattore fece ancora il suo dovere. C’erano delle antilopi d’acqua ad aspettarci. Fummo condotti in un comodo bungalow, chiamato banda da quelle parti, dove ci facemmo una doccia calda. Non ricordavo più l’effetto ristoratore e rilassante dell’acqua calda che scorre sulla pelle. Fu una delle più lunghe e piacevoli docce della mia vita. Cominciammo a ridere come dei bambini tant’eravamo felici di essere sani e salvi e, soprattutto, all’asciutto.


Fu una delle camminate peggiori che mi ricordi. Anzi fu la peggiore. Fu la più dura. Fu la più difficile. Fu la più stancante. Ma una volta arrivati al campo non potei fare a meno di sentirmi ancora soddisfatto di me stesso. Avevo superato un’altra prova. Mi sarei dato una pacca sulle spalle. “Good Job” Andrea.

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Ma almeno ti sei preso l' influenza? Almeno un raffreddore?

niente di niente, sano come

niente di niente, sano come un pesce del Mar Rosso nelle acque del Mar Rosso. Penso che ora forse, ma solo forse, potrei giocare a pallone anche quando la temperatura scende sotto la doppia cifra. Sto diventando invincibile.