Sì, viaggiare!
- Kategorie:
Finalmente mi sento come a casa, finalmente sono di nuovo in viaggio.
Viaggiare è pericoloso. Si può diventare dipendenti e non voler smettere più. A volte ci si ferma più a lungo in un luogo, ma è solo questione di tempo prima di mettersi lo zaino in spalla e presentarsi alla stazione dei treni. Chi è malato lo sa, ma non riesce a trovare una cura a questa malattia. Ci si illude di poter smettere quando si vuole perché si è consci di ciò che scorre nelle proprie vene. Ma pochi sono quelli che riescono a dire basta alle sigarette, e lo stesso vale per chi viaggia.
In Cina pensavo di aver trovato un luogo accogliente che mi trattava bene e mi invitava a rimanere a lungo. Ero talmente affascinato che avrei volentieri preso un posto da insegnante di italiano in una qualsiasi piccola cittadina cinese di un paio di milioni di abitanti, solo per stare più a lungo nella terra di mezzo. Come il compagno di lagune Marco Polo ero rimasto rapito da quel mostro che galoppa verso il futuro, o che è già il futuro, ma che non ha nobili cavalieri senza macchia che riescano ad eliminare le ingiustizie dello sviluppo odierno.
Lasciai la Cina un po’ a malincuore. Non mi rendevo conto che la comodità mi aveva afferrato per le caviglie e mi teneva stretto. In Cina tutto era comodo e facile, nonostante le incomprensioni linguistiche. A volte mi sembra che in Cina non stessi viaggiando, ma che semplicemente mi spostavo da una parte all’altra di quel immenso territorio. Era facile muoversi. Era comodo avere il caffè, mangiare bene ovunque e poter comperare tutto ciò che una persona possa volere girando l’angolo della strada.
Appena superai il confine con la Mongolia, mi accorsi che lasciavo un mondo di comodità per tornare a ciò che avevo messo da parte da tempo, l’estasi del viaggiare, di affrontare piccole difficoltà e superarle, di eliminare il superflueo e di gioire con la gente comune.
Avevo due possibilità per andare in Mongolia: prendere il treno diretto da Pechino a Ulan Batar, oppure usare i treni e gli autobus locali.
Fui convinti da Jeff, il ragazzo della nostra guesthouse a Pechino, ad andare con lui e il suo capo a Hohhot, capitale della provincia autonoma della Mongolia Interna, parte della Cina. Il viaggio in treno con i due cinesi fu un’esperienza. Appena saliti ci dedicammo alla birra e al baijou, un alcolico di 40 gradi, tutto condito da fegato d’anatra speziato, uova sode in una salsa di soia piccante e verdure. Tirai fuori la mia parte che consisteva in Slivovice. Franta non partecipò al banchetto e i miei due amici cinesi non arrivarono alla Slivovice. Fui costretto a bere due bicchierini da solo quando le luci del treno erano già spente da mezz’ora, alle undici.
Il capo di Jeff non parlava inglese e lui faceva da interprete oltre che da porta borse o assistente personale. Era chiaramente imbarazzato che io parlassi solamente con lui. Nel suo ruolo lui doveva essere a margine. Il quadro era occupato da un ritratto del capo, poi io in secondo piano, e lui sullo sfondo. D’altra parte Jeff faceva tutto e scattava ad ogni cenno del capo. Lui aveva i soldi, lui portava le borse, lui andava a chiedere se c’era da informarsi, lui accendeva le sigarette del capo. Era un bravo ragazzo e mi era molto simpatico, ma aveva il suo ruolo nella gerarchia sociale cinese, e da lì non si scappa. Gli auguro ogni bene.
L’attraversamento in treno del confine mi riportò alla realtà del viaggiare. Mi accorsi che mi mancava. In Cina era tutto comodo, lì invece il treno era sovraffollato di persone, cose e animali. In Cina le persone mostrano talmente tanto rispetto nelle relazione interpersonali da preferire non rivolgere la parola piuttosto di rischiare di dire qualcosa di imbarazzante e se sei straniero vieni solitamente evitato perché sei diverso e perché già sanno che non si può comunicare con te in maniera che loro reputano civile, cioè noi gesticoliamo molto, alziamo la voce, magari tocchiamo gli altri o ci avviciniamo troppo, oppure poniamo domande impertinenti. Al contrario in Mongolia.
Prima che il treno partisse avevamo già fatto amicizia con i nostri 6 compagni di viaggio. Le conversazioni si svolgevano in mongolo, un po’ in russo supportate da Franta e da quel poco che era rimasto della collaborazione sovietica nelle menti dei più adulti, a gesti e a scarabocchi su carta. Dopo mezz’ora mi venne offerta della vodka. Dormivo. “Hey Italia” e mi mostrarono la bottiglia, ma senza bicchiere. “Grazie, ma come la bevo?” Risero della mia sciocca domanda. La signora che aveva passato una decina di minuti ad accarezzare i peli del braccio di Franta che mi guardava imbarazzatissimo mi fece un segno chiaro: avrei dovuto mettere le mani a coppa e bere. E così feci. Unii le mani come se dovessi raccogliere l’acqua da una fontana nel parco e sorseggiai rumorosamente la vodka offerta.
Fu puoi il nostro turno di stupire i nostri nuovi amici con la slivovice. La gente ci abbracciava, ci metteva le mani sulle spalle e si stringeva sempre di più a noi. Cercarono pure di farmi sposare una giovane e carina ragazza di venti sette anni, mentre il suo fidanzato russava nella cuccetta superiore. “Volentieri, ma non vorrei finire con la gola tagliata prima di scendere da questo treno”. Seppur delusi capirono le mie motivazioni di salute.
Erano tutte persone che tornavano dalla Cina ai loro paesi carichi di mercanzie, per loro o da rivendere guadagnandoci chissà quanto. Ci mostrarono il passaporto dopo aver esaminato increduli i nostri timbri dalla Turchia alla Mongolia. Ciascuno aveva pagine di timbri cinesi e mongoli a distanza di qualche giorno l’uno dall’altro. Era commessi viaggiatori incaricati dalla propria gente o per proprio interesse di fare incetta di prodotti impossibili da reperire in mezzo al deserto.
Quanto calore sprigionavano quelle persone, in tutti i sensi purtroppo. C’era un forte odore di umanità nel vagone, ma che divertimento in una lingua sconosciuta.
Era questo che mi mancava. Ero assuefatto alla comodità, ad una vita simile alla precedente. Mi stavo perdendo nell’inedia delle solite cose e del superfluo e inutile. Mi stavo staccando dall’umanità che avevo incontrato dalla Turchia fino all’India, con i suoi difetti e i suoi valori. Quel viaggio in treno mi ributtò indietro con un colpo di frusta, come un’inchiodata in auto che ti spinge prima avanti e poi di scaraventa indietro sul sedile. Ero saltato in avanti in Cina e ora ero schiacciato sul sedile in Mongolia.
Consapevolmente cercammo di complicare un po’ le cose e scendemmo a Sainshand, un paesino di quindicimila abitanti che ci fu descritto come una città dai nostri compagni di viaggio. In effetti era centinaia di volte più grande dei centri abitati composti da quattro o cinque costruzioni che vidi lungo la ferrovia nel deserto intervallate da branchi di pecore, capre e qualche cavallo sciolto qua e là.
Scoprimmo che da Sainshand non si può andare a ovest. C’è un deserto in mezzo e i mezzi vanno solo verso Ulan Batar o nei villaggi adiacenti. Nessuno si sposta più lontano e solo chi non ha alcuna idea di ciò che sta facendo attraverserebbero il deserto da quella parte. Avremmo dovuto andare verso Ulan Batar e poi scendere a ovest seguendo i lati di un triangolo isoscele con la punta superiore nella capitale.
Il fatto che a Sainshand non c’è nulla non mi dispiacque affatto. C’era una strada che portava fuori dal centro abitato. La segui e vedevo il deserto davanti a me. Dopo l’ultima casa la strada asfaltata finiva. Non girava attorno alle case, non si stringeva, non proseguiva in un percorso sterrato. Semplicemente finiva lì. Davanti a me solo sabbia, aridità, vento forte e cielo azzurro. C’era un carro armato sopra ad una collina che circonda il lato nord della città e la divide dalla stazione dei treni. Da sopra il carro russo i vede il villaggio e ci si perde nel deserto. Perché la gente vive qui?
Attraversai la città e contai almeno 6 campetti da basket abbandonati. Uno di questi si trovava sopra ad una montagnola di sabbia e il canestro sembra messo lì dai tempi di Gengis Khan. Vicino ad una scuola finalmente incontrai ragazzi che giocavano. Erano veloci e tecnicamente dotati. Gli mancava il tiro da fuori. Avrei potuto batterli.
Le costruzioni più grandi avevano un aspetto quadrato e solido, comunista. Le strade erano ampie e percorse saltuariamente da qualche jeep stracarica. C’erano persino dei marciapiedi lungo quelle strade deserte e ricoperte di deserto. La maggior parte delle abitazioni erano casette con un recinto in legno. Non mi davano l’idea di povertà, ma mi sembravano vecchie e semplici con un forte bisogno di manutenzione. Tuttavia avevano una loro personalità e dignità. Proveniente dalle moderne città cinesi mi dovetti riabituare a quel tipo di costruzioni. Era come se avessi fatto un salto indietro nel tempo.
Le ragazze che uscivano da quelle case indossavano vestiti moderni dalle combinazioni incredibili in perfetto stile asiatico. Alcune di loro vestivano elegantemente e verso sera erano pronte per andare a qualche festa. Le donne mongolo sono più formose delle cinesi, e anche più grassottelle. Non vidi anoressiche forme come in Cina. Pure il volto è più tondo con gli zigomi più marcati. Era un paradosso vederle truccate e così vestite uscire da quelle abitazioni dall’aspetto esterno così vecchio e mal curato. Un quadro del Quattrocento con dentro un Mirò.
Il parchetto color ocra e senza erba ospitava degli alberi senza foglie e al centro una fontana. Attorno a questa i bambini giocavano tirandosi dietro l’acqua raccolta in bottiglie di plastica. Le grida di felicità non potevano fare altro che contagiarmi e farmi sorridere se non ridere con loro. Ovviamente io ero lo straniero. Ma non era il far west dove la tua vita è minacciata. C’era curiosità per la mia pelle bianca e le mie lunghe braccia ricoperte da un po’ di pelo. Erano affascinati dai miei occhiali da sole stile matrix, ma soprattutto la mia altezza e la mia pelata catturavano sguardi a bocca aperta.
Forse la mia missione in questo viaggio è far incontrare a questi ragazzini un “uomo bianco” in carne e ossa. Per molti in questo paesino è la prima volta che vedono un europeo e mi piaceva pensare che crescano capendo che al mondo ci sono molte forme della stessa umanità e c’è chi vive lontano in luoghi impronunciabili vicino ad una cosa blu e liquida chiamata mare, che ha il colore della pelle diverso e il taglio degl’occhi di una forma differente, ma che in sostanza sono uguali a loro.
La gente qui ci salutava come succedeva in India, Pakistan, Iran, Turchia. Perché in occidente non si usa? Durante il mio periodo di cattività milanese, una mattina decisi di dare il buon giorno dal tragitto che mi portava da casa mia in via Piero della Francesca vicino alla Bullona a Cologno Monzese dove lavoravo. Provai tre volte in metro. La prima volta ripetei buon giorno due volte alla persona che si era seduta accanto a me, ma non ricevetti nessuna risposta. Siccome non ci conoscevamo avrà pensato che o ero pazzo o salutavo qualcun altro. La seconda volta mi sedetti di fianco ad una ragazza che si strinse nel suo vestito e nel suo sedile si spostò finché poté contro al finestrino, cercando di metter spazio tra lei e il pazzo che probabilmente secondo lei ci stava provando. La terza volta il buon giorno fu rivolto ad un signore di una certa età che leggeva il giornale. Girò la testa verso di me col giornale ancora aperto. Abbassò il capo per vedere da sopra gli occhiali che rimediavano ad un inizio di presbitismo e mi guardò per alcuni silenziosi secondi. Forse cercava nella sua mente una mia immagine, una visione che gli avrebbe fatto riconoscere il mio volto e quindi classificarmi come conoscente e salutarmi. Passarono altri imbarazzanti silenziosi secondi di sguardo fisso, ma niente. Il motore di ricerca non trovava nulla e chiedeva se voleva che ricominciasse a cercare dall’inizio della sua vita. Decise di no e probabilmente concluse che fossi stato un amico di suo figlio e che lo avevo riconosciuto, oppure uno di quei sbarbatelli impiegati neolaureati che credono di aver capito il mondo e che riconoscevo in lui il manager che aveva fatto carriera. Ricambiò il saluto e si rituffò nella lettura. Arrivato all’oroscopo avrà letto: “evitate contatti con persone che non conoscete”, e si sarà convinto che l’oroscopo, a volte, c’azzecca.
- blog di Unprepared Andrea
- 1492 letture
Commenti
"... Avrei potuto
"... Avrei potuto batterli..."
Mi ricorda tanto quella scena di "Tre uomini e una gamba" quando Giovanni fa a braccio di ferro con il bambino, bullandosi poi di lui per averlo battuto...
Il fatto che ti sia venuto il dubbio di poterli battere, e che tu abbia cercato mentalmente di convincerti di poterli battere (tipo Rocky, mi ti immagino: "Posso batterli! Posso batterli! Occhi di tigre!") ... beh, ci conferma che l'annata della Juve è stata davvero psicologicamente devastante per i suoi accoliti ...
Sono lontani i tempi in cui eri costretto a tirare in casa la maglietta di Georgatos per poter vincere lo scudetto ... ora i tempi sono cambiati, questo è il momento della Grande Inter e del mitico Triplete ...
Mi aspettavo qualche salace commento in più da parte di Giuliano, ma vedo che sta avendo più pietà doi me nell'infierire...
Perso in questi anni bui, ho
Perso in questi anni bui, ho passato una settimana a meditare nel Deserto del(i) Gob(b)i, ma non sono riuscito a trovare una risposta. Vago ancora senza punti di riferimento in questo mondo nero, e anche azzurro.
La tragedia che ci aspetta, tutti nessuno escluso, è la coppa del mondo con la difesa bianconera...
Caro Matteo, non ho
Caro Matteo,
non ho infierito...
in questi anni siamo stati presi in giro in tutti i modi.
Lui avrebbe potuto batterli: noi abbiamo vinto!
e la nostra superiorità si dimostra anche nell'essere magnanimi.
siamo signori anche nella vittoria: perdonali perché non sanno quello che fanno :D