23.02 Vietnam panino alla segatura e al coriandolo

A Nha Trang avrebbe dovuto esserci il sole e avrei dovuto immergermi in uno dei posti più belli del Vietnam, o meglio l’unico posto adatto alle immersioni lungo la costa vietnamita. Invece il tempo era grigio e prometteva pioggia che arrivava alla sera sotto forma di schizzi con lo spruzzatore.
Ritrovai Franta, il compagno di viaggio di un anno d’avventure in giro per l’Asia e per l’Africa. Era passato più di un mese da quando ci separammo in Egitto e nulla era cambiato tra di noi. Stessi punti di forza e stessi difetti. Io volevo andare a mangiare per strada sugli sgabelli provando tutte le cose più insolite anche se facevano schifo rischiando chissà che cosa solo per il piacere di provare qualcosa di locale che forse nemmeno la gente del luogo apprezza. Lui invece preferiva i soliti cibi che conosceva nei ristorantini a basso prezzo sempre senza rischiare nulla. In Vietnam il costo della vita è così basso che anche mangiare al ristorante non perfora le tasche, però ti fa mancare quello spirito di immersioni nella cultura locale. Certo, si rischia una corsa al bagno, ma a me è spesso andata bene (faccio tutti gli scongiuri del caso, intendiamoci).
In alcuni locali la birra costava mezzo euro, e avevano la mania degli Happy Hours con drink omaggio. Non c’erano molti turisti per strada e quei pochi potevano scegliere tra una marea di offerte. Fu così che passammo un paio di serata a bere e a giocare a biliardo conoscendo pochissime persone.
Era quasi impossibile comunicare con i vietnamiti. Pochissimi parlavano inglese e solitamente si limitava all’ambito della vendita ai turisti. Non riuscii a trovare nessuno con cui scambiare due parole e a fargli domande scomode. Nemmeno parlare di calcio, l’ultima spiaggia, riusciva a instaurare una conversazione. Peccato.
Visitai l’enorme Buddha in pietra bianca, la cattedrale, e un paio di torri buddiste originariamente costruite dagli induisti che abitavano la zona e che provenivano dall’India circa 1500 anni fa. Al mercato acquistai per pochissimo banane e frutti del drago e ricevetti un paio di complimenti per i miei occhi, cosa che non fa mai male all’ego di noi maschietti.
Siccome non c’era molto da fare e il cielo grigio mi metteva di malumore passammo mezza giornata alle terme in un bagno di fango e acqua calda. Mentre ero nella vasca coperta di fango mi chiesi dove andasse tutto il fango utilizzato e da dove proviene quel fango. Mi venne in mente la strada fangosa che avevo appena attraversato in bicicletta. Decisi che fosse meglio non pensarci.
Al nostro albergo la padrona fu gentilissima e ci aiutò ad acquistare il biglietto dell’autobus “sleeping class”. Sono degli autobus per viaggi lunghi di notte con dei lettini al posto dei sedili. Li avevo già sperimentati in India e in Cina. In India i finestrini non si chiudevano mai e morivamo congelati, mentre in Cina l’unico che prendemmo ebbe un guasto al motore e aspettammo nell’arsura dello Sichuan per quattro ore. Era giunto il momento di riprovare un po’ di adrenalina.
Al momento di salire ci diede i biglietti. Diedi un’occhiata “Mi scusi, ma dove va questo autobus?” chiesi leggendo dubbioso la destinazione per avere conferma. “Va a Hoi An. E vi ho riservato i posti dietro che sono i migliori perché c’è più spazio.” Elaborai le informazioni “Ma noi volevamo andare a Huè…” Guardai Franta, “Eh vabbè, vuol dire che andremo ad Hoi An” mi disse ridendo. La donna era mortificata. Per noi era troppo divertente per arrabbiarsi. Salimmo e ci sdraiammo nei peggiori posti dell’autobus: quelli posteriori, corti e saltellanti. Fu una notte impossibile dove non ci si poteva girare senza urtare il vicino, e si spera di non toccare o essere sfiorati in parti che non dovrebberlo essere e che il vicino non russi o non abbia mangiato aglio. In oltre ad ogni dosso si rischiava di sfondare il lettino superiore con una testata.
Arrivammo a Hoi An. In poco tempo comprendemmo che c’era poco da vedere lì. Non volevamo fare alcun giro per l’entroterra o nei luoghi dei vari massacri militari. Era grigio e pioveva anche dentro di noi.
Fu ad Hoi An che ebbi il mio primo contatto con il caffè vietnamita dall'aspetto denso e bituminoso. Era amaro e ricordava una Guinness fredda e scaduta da anni. Per berlo fu necessario versare chili di zucchero affinche' la soluzione (perche' quello li' non era caffe', ma una soluzione chimica non ben definita) si saturasse di zucchero. A quel punto divento' schifoso, ma bevibile.
Prendemmo il primo autobus per Huè. Lì trovammo un bel albergo dove volevano farci pagare di più perché c’era la piscina “Ma se ci sono 14 gradi fuori! Che me ne faccio della piscina?”. Lo staff dell’albergo si dimostrò essere cordiale e il padrone gentile. L’albergo era nuovo e scoprii che il pezzo di terra era costato 600 dollari, mentre per la costruzione di quattro piani e una ventina di stanze aveva speso circa 50.000 dollari. Forse mezzo monolocale a Caorle si può acquistare per quei soldi.
Ad Huè, ovviamente, pioveva e non era stagione per visitare la DMZ, De-Militarized Zone. Mi resi conto che non era stagione per visitare il Vietnam in generale. Sognavo la Thailandia e le immersioni e invece ero sotto la pioggia e al freddo. Perché?
Mi consolai visitando la cittadella e la città proibita. Ma non era tempo per andare a zonzo per la città e perdersi come facevo di solito solo per il gusto di ritrovare la strada e parlare con la gente per chiedere informazioni. Portai Franta di fronte ad una vetrina di un ristorantino locale dove non esistono menu e nessuno parla inglese. C’erano degli enormi pesci fritti che ci guardavano fissi negli occhi. Fu amore a prima vista. Prima di proseguire il nostro viaggio verso il nord e verso il Laos andammo lì altre tre volte a riempirci di unto, ma se è pesce deve per forza far bene.
Facemmo breve tappa ad Hanoi prima di proseguire per Thanh Hoa e nell’autobus per Hanoi constatai un sospetto che avevo da un po’. I vietnamiti tendono a trattare i turisti peggio che i loro concittadini. Ci fanno pagare di più e poi ci sbattono sempre negli ultimi posti e se ne fregano. Forse ero abituato fin troppo bene dall’ospitalità africana (Sudafrica escluso), mediorientale o dell’Asia centrale o indiana. In questi Paesi tutti si fanno in quattro appena ti vedono in difficoltà. Non serve nemmeno chiedere e una mano ti viene subito tesa. Nelle città in Vietnam invece, spesso, si chiede un mano, ma la ritraggono. Vedi posti in autobus turistico.
A Thanh Hoa, almeno la gente ci aiutò con indicazioni a braccia in quel fantastico linguaggio universale che il linguaggio del corpo e dei movimenti. Ci fecero pagare di più, come al solito, ma col sorriso sulle labbra che ti fa sempre incazzare, ma un po’ meno.
Il minibus era pieno di merce da trasportare al confine col Laos e oltre. La strada era tortuosa mentre si arrampicava sulle montagne a ridosso della frontiera. I centri abitati ora erano dei piccoli accumuli di case in legno in mezzo alla fitta foresta. Alcune case erano rialzate da terra con dei pilastri. Sotto parcheggiavano la motocicletta e accumulavano materiale e occasionalmente vidi dei ragazzi giocare a biliardo. Ci fermammo ad un bivio che doveva essere un villaggio. Mangiai un panino con segatura e coriandolo e mi fecero assaggiare del riso immerso in un liquido rosso come il vino e dal sapore d’aceto. Per cortesia dissi che era buono, ma che non avevo più spazio nella pancia.
Per me il Vietnam finì così. Con un po’ di amarezza in bocca, non solamente quella lasciata dal caffè. Forse il tempo, forse il mio stato d’animo non me lo fecero apprezzare appieno. Il Vietnam è uno di quei Paesi che mi fece dire “Devo tornarci. Non l’ho vissuto completamente. Mi manca questa parte. E quest’altra. E anche quella. E poi devo fare ancora questo e verificare quello. Ci tornerò.” Devo al Vietnam una seconda chance e lui la deve a me. Altrimenti che dico al mio amico vietnamita negoziante a Praga?