Agli arresti domiciliari a Bam

A Bam fummo messi agli arresti domiciliari nella Guest House per stranieri.

Nella città disastrata dal terremoto che nel 2003 costò la vita a 40.000 persone era rimasto ben poco da visitare. La città era un cantiere per la ricostruzione e la bellissima cittadella costruita sul deserto dai soliti mattoni di fango non era altro che un ricordo da cartolina. Nonostante la distruzione il governo iraniano insieme a molti enti internazionali cercavano di restaurare l’antico splendore. Si vedevano i primi risultati, ma i tempi saranno lunghi, molto lunghi. La macerie erano tristi e servivano a ricordarci di quanto piccoli e semplici siamo noi uomini di fronte alle forze della natura che cerchiamo continuamente di soggiogare, ma che non riusciamo mai a piegare al nostro volere. E’ bastato uno starnuto di questa terra arida per distruggere un’intera città.

Passeggiando tra le case in costruzione venivamo continuamente salutati con i soliti “Hello Mister, how are you?” che non attendevano risposta, anche perché erano le uniche parole in inglese che i giovani avevano imparato e che ripetevano a pappagallo. Un ragazzo in moto, non sapendo altro in inglese ci gridò “Michael Jackson!”, voleva partecipare anche lui!

Mi innervosì il fatto di essere al centro dell’attenzione continuamente e a trovarmi intorno persone che ti guardano continuamente come un animale in uno zoo. Era stancante. A volte l’esasperazione raggiungeva tali limiti che rispondevamo seccati e in modo rude e aggressivo senza riconoscermi oppure ignorando completamente le persone che cercavano in quel modo di mostrarsi gentile e interessarsi a noi, non capendo che oltrepassavano il confine della nostra privacy e tranquillità. Ora capisco gli orsi che rimangono nascosti nelle loro tane e perché i lama sputano ai visitatori allo zoo.
Il primo giorno andammo alla cittadella e rientrammo zigzagando alla guest house. Lungo il vialone che ci riportava alla nostra temporanea casa Franta mi fece notare un auto in lontananza da una macchina che avanzava lentamente seguendo il nostro passo.
“Andrea, siamo seguiti.”
“Paranoico e stancante. Non sei più divertente.” Mi riferivo alle continue battute di Franta indirizzate al fatto che i servizi segreti iraniani ci pedinavano dall’inizio del nostro viaggio in Iran in quanto stranieri e perché lui aveva studiato all’Università di tecnologia e ingegneria nucleare, nonostante la facoltà fosse quella di matematica.
“Stavolta non scherzo. Osserva l’auto grigia dietro a noi.” E così dicendo si mise dietro ad un palo della luce in cemento con dei buchi. “Io gli faccio una foto.” E scattò una fotografia attraverso uno di quei buchi.
“Ti sbagli.” In realtà chi si sbagliava ero io.
Proseguimmo guardandoci dietro le spalle. L’auto avanzava con la stessa velocità a passo d’uomo. Eravamo vicini alla guest house e c’erano un po’ di persone in giro e solo un pugno di negozi aperti.
“Hai ragione” dovetti concordare con Franta “probabilmente la polizia”.

Mentre il nostro stato d’animo era passato da inquietudine a cazzeggiare su presunti 007 iraniani sfigati senza top model al loro fianco e che interrogavano al ritmo di “Hello Mister, how are you?”, l’auto accelerò e ci passò accanto. Dal finestrino ci salutarono e dissero di essere della polizia e che ci avrebbero aspettati alla guest house. Oramai tutta il paese era a conoscenza dei due turisti appena arrivati e loro si preoccupavano che non succedesse nulla a noi e che ce ne andassimo al più presto passando la maggior parte del nostro soggiorno rinchiusi in quel posto sicuro, che a detta loro e di Akbar, il padrone della guest house, era appunto il nostro alloggio. Akbar ci disse che se volevamo uscire dovevamo avvisarlo e poi lui avrebbe avvisato la polizia. Volevano sapere i nostri spostamenti. Erano preoccupati da quando un giapponese anni prima era stato rapito e non volevano che i media e la diplomazia ficcassero il naso in quella parte del mondo.

Eravamo agli arresti domiciliari. Fortunatamente era piacevole passare il tempo al sole sulla terrazza bevendo tè e chiacchierando con Akbar e un giovane azero di Tabriz che con un rudimentale inglese mi teneva compagnia parlandomi del suo mestiere di falegname e di quanto è bello il nord dell’Iran. Il fatto che ci fu sconsigliato di non uscire la sera e per lunghi periodi ci costrinse a mangiare lì e dopo tanto tempo presi l’occasione per preparare una pasta con i pochi ingredienti e mezzi a disposizione.
Non potemmo credere ai nostri occhi e alla nostra bocca quando assaggiammo la pasta cotta su un fornello a gas da campeggio con una pentola che non volevamo sapere come era stata pulita e uno scola pasta improvvisato ma efficace. Settecento grammi in due con formaggio tipo balcanico e una scatoletta di verdure varie perché non riuscii a trovare nulla di fresco. Sarà stata la fame e le tre settimane di kebab e dizi, ma la pasta ci sembrò la migliore pasta del mondo. Il nostro stomaco ringraziò sonoramente diverse volte.

Sorseggiando tè sotto il sole chiesi ad Akbar come procedevano i lavori di ricostruzione.
“Ci vuole tempo, tanto tempo. Per la ricostruzione della cittadella si sono mossi pure organizzazioni internazionali. Ci sono pure italiani.” Rispose Akbar.
“E casa sua? Vedo impalcature ovunque.”
“Lentamente stiamo procedendo. Ci vuole tempo e convinzione. Sai, Andrea, quando a sessantadue anni ti svegli alla mattina, se ti svegli ancora vivo, e vedi che tutto intorno a te e distruzione e morte, allora è molto difficile ricominciare da zero.” C’era tristezza nel suo volto come se solo a parlare di quello che i suoi occhi videro fosse essere lì. Come dargli torto.
“Il governo ci aiuta, ma non è facile. Andiamo avanti comunque e la gente di qui cerca passo dopo passo di tornare alla vita normale. C’è rassegnazione per quello che è successo, ma molti stanno reagendo e speriamo di tornare la bella e piacevole città di un tempo. Prendiamo esempio dalle palme. Quelle sono rimaste e rimarremo anche noi.”
Dopo una vita da insegnante di letteratura inglese andò in pensione e aprì un guest house.

“Ho viaggiato molto e volevo dare ospitalità ai viaggiatori, offrendo quello che non ho ricevuto nei miei viaggi e che mi sarebbe piaciuto avere.” Stavolta lo diceva sorridendo, fiero di quello che stava facendo.
Continuammo a parlare a lungo facendomi sentire a casa. Era come ascoltare mio nonno che intervallava serietà e divertenti battute. L’importante era rilassarsi e non preoccuparsi perché nella vita succedono cose fuori dal nostro controllo e non serve allarmarsi e vivere nei problemi che ancora devo accadere.
“Andrea, il matrimonio è come una cittadella: chi è fuori vuole entrare, chi sta dentro vuole uscire.” Ne aveva per tutto e tutti. Citò dei versi di una delle sue poesie preferite parlando dell’amore:
“Sono un coccio di terracotta che profuma di rosa perché sono stato vicino alla rosa. Senza quel fiore sarei solamente un coccio di terracotta.”

Solamente quando gli fece notare che sui siti italiani c’erano delle immagini delle violenze che stavano accadendo quel giorno a Teheran tra oppositori e regime con volti insanguinati e drammatici resoconti sembrò stanco di lottare.
“Andrea, lascia stare. Quelli lì si fanno sempre la guerra. Una volta stanno da una parte, e il giorno dopo dall’altra. Non si sa mai cosa succede. Non mi interessa più.”

Fortunatamente eravamo lontano dalla capitale e dagli scontri. Apparentemente c’erano stati pure dei morti tra i sostenitori dell’opposizione che avevano persi le elezioni sei mesi prima accusando il governo di Amadinejad di brogli. Il governo iraniano non si faceva pregare nell’utilizzare la violenza per piegare la resistenza. A volte mi sembrava che il pugno duro fosse l’unico modo che il governo aveva per controllare la situazione e la popolazione, per farsi rispettare. In questa parte del mondo la gente segue chi dimostra forza. Non penso che siano pronti alla democrazia occidentale che gli americani e gli europei usano come schermo per i loro interessi e influenza nella regione. Credo che per governare da queste parti bisogna avere polso, una forma di governo totalitaria che poi gradualmente possa evolversi in forme più civili. Iraq e Afganistan sono esempi chiari di come la guerra in nome della democrazia abbia portato solo danni alle popolazione e ulteriore instabilità a zone come il Pakistan. Pensavamo di essere nel giusto e di poter decidere per gli altri quello che è meglio per loro applicando un modello occidentale ad una cultura completamente diversa dalla nostra. Mi sembrò evidente lo sbaglio.

Discutemmo con Franta sul totalitarismo e sulla Cina. Ci sembrò chiaro che se in Cina dovesse arrivare la democrazia ci sarebbe un bagno di sangue tra e nelle provincie con instabilità mondiale. L’esempio principale ci veniva dalle province occidentali con una forte presenza mussulmana. Una democrazia cinese non potrebbe mai tenere unite quelle provincie. Forse meritano di essere indipendenti, ma cosa succederebbe alla popolazione cinese non mussulmana? Le rappresaglie potrebbe essere sanguinose. Questo almeno fu il nostro scenario da esperti storici e geopolitici.
Fu il momento della partenza. Alle cinque del mattino Akbar ci accompagnò alla fermata dell’autobus. Doveva farlo lui e consegnarci alla polizia che ci attendeva e che rimase con noi assicurandosi che fossimo saliti sull’autobus e che fossimo un problema di un’altra giurisdizione. Aspettammo due ore al freddo prima di poter partire. La nostra meta era Zahedan, in Balucistan, dove avremmo preso immediatamente l’autobus per la frontiera. Zahedan non era una città raccomandabile per gli stranieri e la polizia locale lo sapeva bene.

Cominciava la parte più difficile e pericolosa del nostro viaggio.