Sangri-La e la gola della tigre saltante
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Non si può dire di aver viaggiato in autobus se non si è mai saliti su un autobus a lunga percorrenza cinese con i lettini per passarci la notte. Ci sono tre file di letti singoli a castello dove i piedi si infilano sotto il letto di chi sta davanti in un buco che diventa cuscino rigido. Inoltre se si arriva alla mattina presto o nel cuore della notte, si può rimanere a bordo a dormire.
Il nostro autobus si ruppe dopo due ore di percorso in direzione Sangri-La. Aspettammo altre due ore sotto il sole che arrivasse il mezzo sostitutivo. Attorno a noi lo Yunnan arido dove non pioveva da mesi e che aveva fatto scattare lo stato d’emergenza nazionale per salvare i contadini da un anno disastroso.
I cinesi fumavano fuori e dentro all’autobus. In Cina sono ancora pochi i luoghi in cui è vietato fumare e i pacchetti di sigarette sono delle opere artistiche con disegni e colori ricercati.
Arrivammo nel pieno della notte piovosa a Sangri-La e restammo a dormire nell’autobus fino alle 7. Vagando per la città a quell’ora deserta e sotto la pioggia mi fece rimpiangere di essere giunto fin lì. Eppure dicevano che Sangri-La doveva essere un posto indimenticabile, il paradiso in terra, l’Eldorado, tutto a causa di un libro in cui l’autore si inventò questo luogo magico nel Tibet o Himalaya. Ora ci sono molti Sangri-La, macchina mangia turisti, inclusi il paese che porta il nome riconosciuto dalle autorità. I cinesi hanno fiutato l’affare e ci si sono tuffati a capofitto creando turismo dove non c’era grazie ad una favola.
Fortunatamente raggiungemmo il centro storico e passammo una piacevole giornata in un piacevole paese immerso nelle montagne.
Incontrai il primo italiano da quando ero partito. E non era un viaggiatore o un turista qualunque. Sergio aveva lasciato l’Italia a 17 anni e da allora aveva fatto una vita in giro per il mondo, da un Paese all’altro lavorando e viaggiando. A 55 anni stava viaggiando in Cina. Perché no? Sergio era l’evidenza che si poteva farlo. Parlammo per ore e la mia mente andava ai siti per viaggiatori in italiano. Era gente che faceva del viaggio la propria vita e alcuni avevano un sogno, quello di vivere e lavorare viaggiando e raccogliere questa strana specie, i viaggiatori indipendenti, in un network da sviluppare per inseguire e raggiungere il proprio sogno.
Il giorno dopo decidemmo di proseguire nel nostre escursioni e fummo attirati da “La gola della tigre saltante”. Non sapevo se la traduzione fosse corretta, ma il nome curioso che associavo a “Tana delle tigri” del cartone animato “Uomo Tigre”, mi attraevano come una calamita. Ci dissero che la strada per il ritorno era bloccata e che avremmo dovuto attraversare una frana. Non ci feci caso, era impossibile che ci facessero passare attraverso un luogo pericoloso. Mi sbagliavo.
Lasciai lo zaino all’ostello da Jane con l’intenzione di tornare a prenderlo il giorno seguente. Imboccammo il sentiero dopo mezzogiorno e secondo la guida per attraversare la gola ci vogliono nove ore. Decidemmo perciò di fermarci a metà strada o in ogni caso camminare fino a che la luce ce l’avrebbe permesso.
Non pagammo l’ingresso alla zona protetta perché effettivamente c’erano due frane nella parte inferiore del circuito con rocce che cadevano e gli operai del comune che cercavano di sistemare quella strada scomparsa in certi punti. Ciononostante non credemmo fosse pericoloso. Ero sicuro che ci avrebbero fermato se non fosse stato possibile passare.
La parte superiore attraversava dei villaggi, tra cui un centro Naxi (Nassi), una popolazione locale, e diversi alloggi per turisti. Dove la passione per l’asfalto cinese finiva, incominciava il sentiero vero e proprio che sovrastava la gola dal ripido precipizio e il fiume che scorreva tranquillo e del colore della terra. Una donna ci bloccò e pretese un’offerta per la gente del villaggio che ora non riceveva più sovvenzioni statali a causa della chiusura ufficiale del percorso inferiore. Chiese 50 yuan mostrandoci un teso in inglese e in cinese. Intuii che nella versione cinese compariva 10 e non 50. “Donammo” 10 yuan e proseguimmo.
Arrivammo al punto più alto quasi senza accorgersi, anche perché da lì non si godeva di una bella vista. Eravamo già in anticipo sulla tabella prevista dalle guide e avevamo incontrato solo poche persone. Il paesaggio era verde e sembrava di poter sfiorare le montagne attorno e dall’altra parte della gola. Eravamo centinaia di metri sopra il fiume con pareti che a volte erano perpendicolari e strette. Franta soffrendo di vertigine era entro in crisi più volte.
Camminavamo da ore, inclusa la pausa per il pranzo, e siccome c’era ancora luce decidemmo di proseguire. Alla fine arrivammo a destinazione alle otto di sera, dopo sette ore di cammino, dove le indicazioni dicevano nove ore di escursione.
Il punto più affascinante fu una cascata nel mezzo del percorso, nel senso che l’acqua si cadeva esattamente dove si doveva passare. Non c’erano ponti in quel punto. Si trattava di scegliere se camminare nei 4-5 cm d’acqua che scorreva dalla parete e cadeva a valle per centinaia di metri e perciò testando l’impermeabilità delle scarpe, oppure rischiare e saltare sulle poche pietre lisce, bagnate e scivolose, che emergevano da quel rigagnolo. Decisi per la seconda e tirai Franta per il braccio per farlo attraversare.
La mattina seguente organizzammo il mezzo di trasporto per tornare indietro. Avremmo dovuto attraversare il percorso inferiore, quello con le frane. Un minibus ci accompagnò fino a dove poté e quella parte non asfaltata, zizagando tra rocce e mezzi pesanti operativi che cercando di sistemare una strada che esisteva e che ora non c’era più, non mi rese tranquillo.
Avevamo davanti a noi il percorso bloccato da rocce franate e spezzate. Due operai stavano sopra e cercavano di rompere ulteriormente quelle rocce per renderle trasportabili. Attorno si sentivano dei sassolini che cadevano. C’era un ragazzo locale con noi che ci aiutò mostrandoci il percorso sicuro da seguire. Salì su una roccia, poi una seconda e una terza fino a che un operaio gli urlò qualcosa. Corse velocemente giù e ci fece capire che lui di solito passava di là, ma che ora non era più sicuro. Ci fece segno che avremmo dovuto passare attorno alle rocce. Come? Da una parte c’era la montagna, in mezzo le rocce che non potevamo scavalcare perché avrebbero potuto crollare ad ogni momento, e dall’altra parte c’era la gola, un centinaio di metri di discesa verticale. Il ragazzo indicò dieci centimetri di spazio tra l’ultima roccia e il vuoto. Saremmo passati su quel punto che oltretutto era sabbioso e che inspirava sicurezza come la tana di una murena. Non c’era altra via. Se il terreno cede, sono morto. Chi me lo ha fatto fare? Passammo con il cuore che batteva a mille in apnea. Ma non era finita.
Giungemmo all’inizio di una galleria. Fummo fatti entrare e la guardia ci fece aspettare fino ad un ordine via radio. Dov’era il problema? Il problema era dall’altro lato della galleria. All’uscita c’era una frana. L’arco della galleria era per metà ostruito da terra e sassi che erano caduti da un centinaio di metri più in alto ed erano scivolati per centinai di metri fermandosi solo una volta toccata l’acqua sul fondo della gola. Sopra la frana c’erano due ruspe che cercavano di appiattirla partendo dall’alto e spingendo sempre più terra e sassi giù per quello scivolo naturale.
Non capivo dove dovevo passare, fino a che non vidi il ragazzo che era con noi e altre tre donne che erano dentro il tunnel prima del nostro arrivo, attraversare i trenta metri che ci separavano dal solido percorso oltre la frana. Non c’era un percorso da seguire, perché ogni passaggio veniva poi coperta dai detriti che arrivavano dall’alto. Volai sentendo la terra che mi scivolava sotto i piedi ad ogni passo e sperando di poterne fare un altro ancora. Non c’era verso di sapere se dove si stava mettendo il piede avesse retto e ceduto sotto il mio peso, solo speranza. Cercai di correre convincendomi di fare passi leggeri come se bastasse a far sparire i miei 85 chili. Mi venne in mente un film “Il mio nome è Remo Williams” dove Remo correva sopra al cemento fresco senza lasciare orme. Almeno il pensiero ridicolo mi distolse dalla pendenza impossibile che mi trovavo davanti. Non si poteva nemmeno fermarsi per valutare la situazione. Fermarsi voleva dire rimanere esposti più a lungo ai sassi che continuavano a cadere.
Appena attraversata la frana mi guardai indietro incredulo. Com’era possibile lasciare passare degli stupidi turisti come noi? In ogni caso eravamo ancora sulle nostre gambe. Prendemmo un altro mini bus e arrivammo da Jane. Raccolsi il mio zaino e andammo a prendere il terzo mini bus della giornata per andare a Lijiang.
Pensavo che in Himalaya avessi corso seri pericoli di cadere, ma a distanza di tempo mi resi conto che il vero pericolo l’aveva appena superato ne “La gola della tigre saltante”.
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