24.01 Laos a 39 gradi
Appena entrati in Laos mi resi conto di quanto stronzi siano i vietnamiti, almeno quelli che si occupano dei trasporti oltre frontiera. Essendo stranieri avevamo già il solito prezzo speciale (in Africa ci facevano pagare raramente di più e al massimo il prezzo era maggiorato di poco) e perciò concordammo per portarci solamente al confine. Una volta in Laos avremmo trovato un modo per raggiungere il paese seguente.
Il nostro autobus vietnamita ci aspettò fino a che non avessimo sbrigato le procedure per il superamento del confine. Era vuoto e ci offrirono un passaggio per 20 dollari anziché 5. Quando dissi di no aspettandomi di cominciare a trattare si impuntarono sui 20 forti del fatto che erano l’ultimo modo di superare i 50km che ci separavano dal primo paese con degli alberghi. Al mio secondo tentativo di contrattazione preferirono lasciarci lì e andare via con l’autobus vuoto piuttosto che scendere a patti con dei turisti. La stessa cosa successe con altri turisti sulla stessa tratta al confine di Na Meo dove il prezzo richiesto per i bianchi oscilla tra i 20 e i 35 dollari. Se invece si riesce a trovare un mezzo laotiano allora 5 dollari bastano e avanzano. Questo fatto rafforzò ancora di più la sensazione negativa che mi avevano trasmesso alcune persone del Vietnam.
Pensavano di averci lasciato nella merda e invece fu un’altra di quelle esperienze indimenticabili che ti capitano per caso quando si viaggia impreparati per il mondo.
Con Franta camminammo zaini in spalla per circa cinque chilometri sulla strada che come un serpente si snodava tra i monti coperti dalla fitta foresta. Le poche persone che incontrammo ci salutarono con un sorriso, cosa che in Vietnam non accadeva spesso. Ogni tanto passava una motocicletta, ma di auto non se ne sentivano arrivare. Si stava facendo tardi e avevamo adocchiato una capanna diroccata e abbandonata, almeno secondo noi, dove avremmo potuto passare la notte che si presentava fredda. Giungemmo in un villaggio dove dei ragazzi stavano alacremente scaricando un camioncino. A braccia cercammo di spiegarli che volevamo andare a Sam Neua, ma loro non erano diretti lì. Quando la gente non sa come aiutarti o non capisce, allora non vede l’ora di sbolognarti a qualcun altro e così venimmo spinti una richiesta dopo l’altra verso la fine del villaggio.
Le case di legno del villaggio, una trentina circa, erano tutte lungo la strada e una delle ultime apparteneva ad un piccolo imprenditore che commerciava in coperture di abitazioni. A fianco a loro abitava una ragazza di ventun’anni, insegnante alle scuole elementari e già sposata con un militare. Lei fu la nostra salvezza. Parlava un po’ di inglese e ci fece da interprete. L’imprenditore, dal nome impronunciabile, capita la nostra situazione, e cioè che eravamo alla disperata ricerca o di un passaggio ad un prezzo ragionevole o di un alloggio, non esitò ad ospitarci in casa offrendoci pure la cena. A dire il vero fui io ad autoinvitarmi indicando se potevamo dormire vicino al camion sotto il tetto protetti dal recinto. Ovviamente, prima risero imbarazzati, poi la moglie ci mostrò il loro salotto e prontamente comparirono due materassi per terra e delle coperte. Perfetto.
Ci sedemmo accanto al fuoco lungo la strada sedendoci su degli sgabelli. Non c’era possibilità di conversazione oltre alle banalità di origine anagrafica che si riescono a comunicare in tutte le lingue. Sul fuoco comparse una carpa come se fosse saltata direttamente dal fiume della valle sottostante. Avevo nello stomaco solo un panino con qualcosa simile alla segatura e all’odiato coriandolo. Eravamo affamati. Mi autoinvitai ancora, stavolta per la cena.
La cena fu servita dalla madre e dalla figlia più grande che aveva dieci anni, mentre padre e figlio erano già seduti a gambe incrociate aspettando il cibo. Quella sera mangiai del riso appiccicaticcio da appallottolare con le mani e interiora di manzo, oltre alla carpa grigliata. Per dessert arrivò pure un dolce fatto di una pasta dura dal sapore di fico. Siccome videro che eravamo un po’ impacciati a mangiare con le mani pensarono di aiutarci porgendoci una ciotola e i bastoncini di legno cinesi.
Non potei fare a meno di ridere. Per loro gli stranieri sono i cinesi o i vietnamiti, perciò forchette e coltelli non riuscivano nemmeno ad immaginarli a tavola. E noi eravamo dei forestieri, i primi europei che si fossero fermati da loro, e perciò era naturale per loro pensare che bastoncini e ciotola per il riso ci dovessero essere d’aiuto. Ah, quanti punti di vista ci sono a questo mondo! In ogni caso preferii usare le mani copiando i loro gesti. E dopo cena si spense luce e quando il fuoco morì si andò a dormire.
Al mattino fummo svegliati gentilmente dalla madre. C’era una persona del villaggio che andava verso Sam Neua passando per Viengt Xai e potevamo salire sul suo furgoncino scoperto. In pochi istanti eravamo al gelo e percorrevamo 45km di tornanti fino a Viengt Xai.
A Viengt Xai visitammo i luoghi dove il partito comunista laotiano, Pathet Laos, nacque e si rifugiò durante la guerra in Vietnam che fu combattuta anche in Laos, ma di questo non si parla molto, perché il Laos, diciamocelo, non fa notizia (senza guardare sull’atlante o wikipedia rispondete a questo: qual è la capitale del Laos?). Da quelle parti la gente si era ridotta a vivere in cave per proteggersi dai bombardamenti americani (anche qui, ovviamente, tutto contro agli americani come se i loatiani non avessero combattuto una guerra civile). Avevano scavato e costruito una città parallela con un teatro, un ospedale, scuole, caserme e tutto quello che ci si può aspettare di trovare in un centro abitato. C’erano gli uffici del partito e ovviamente i vertici avevano la loro cava personale. Le attrezzature erano russe e i rifornimenti cinesi, e c’erano pure dei medici cubani. Mi sembrò chiaro che qui come in Vietnam la guerra era quella fredda tra America e Russia fatta sulla pelle di popolazioni sfigate.
Ripartimmo il giorno stesso per Sam Neua e il raffreddore che mi accompagnava cominciò a peggiorare. Dopo una notte insonne al mattino avevo 39.2 di febbre. Faceva freddo e in camera si sbuffava nuvole di vapore. Ci vollero quattro coperte per scaldarmi. La giornata fu infernale dove tutti gli stadi peggiori di un attacco febbrile si manifestarono in 24 ore. Stare male in un luogo freddo non è proprio la cosa più elettrizzante che possa capitare durante un viaggio. Stare male quando fa freddo e trovarsi in Laos, direi che è sfiga.
Quando sembrava che la temperatura non volesse assolutamente scendere decisi di andare all’ospedale. Bastò questo pensiero e scendere le scale per far diminuire la febbre. La padrona dell’albergo mi fece accompagnare da un SUV e arrivato in ospedale il termometro segnava 38 gradi.
Alla reception sembrava una riunione familiare. C’erano delle signore con i loro figli attorno ad un calorifero che bevevano tè per scaldarsi. Una di loro, una bella e giovane ragazza dai capelli lunghi e neri che sembravano seta tenuti a coda di cavallo come tutte le donne da queste parti, si alzò e mi misurò la pressione, mentre un’altra, la dottoressa mi esaminò e fece un prelievo del sangue per eliminare l’eventualità di aver contratto la malaria. Nessuna delle infermiere o dottoresse indossava il camice, ammesso che fossero dipendenti dell’ospedale almeno quelle che mi visitarono.
Fortunatamente andarono a chiamare un uomo che si presentò come ingegnere che aveva studiato a Mosca e che parlava russo e quel poco di inglese per tradurre i miei sintomi e la ricetta. Da qualche parte c’erano pure dei volontari cubani che non parlavano laotiano, ma “parlano il linguaggio medico” come mi fu spiegato. Utilizzare lo spagnolo in mezzo ai monti del Laos in un ospedale mi sembrò un pensiero prodotto dal deliro febbrile, ma non lo era.
Tornammo in albergo sulla macchina dell’ingegnere. Franta si era sbattuto tutta la giornata correndo su e giù per la città per me e aiutandomi in tutti i modi. Lo ringraziai per diversi giorni a seguire. Mi chiesi se fossi stato da solo cosa avrei in Laos. Poi un brivido mi raggelò, e come fanno le persone sole a casa in Italia?
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