Giorno 1
Finalmente trekking. Lukla-Monjo
Mi sveglio presto alle 6. D’altro canto sono andato sotto le coperte alle 9 e mezza ieri.
Faccio un’abbondante colazione nella sala da pranzo vuota. Sono l’unico turista. La stagione deve ancora cominciare Da metà marzo fino a maggio gli alberghi di questa vallata si riempiranno e si dovrà aspettare a lungo prima di poter mangiare. All’inizio di marzo scopro che non c’è molta gente per il semplice motivo che fa ancora freddo e che c’è pericolo di trovare i percorsi pieni di neve lassù. Qualcuno lassù mi ha donato delle qualità, ma non ha certo abbondato nella resistenza contro il freddo.
Non ho ancora cominciato a salire e già mi sorgono dei dubbi sulla bontà della scelta del periodo. Io, che alla mattina mi lavo il viso con due dita d’acqua perché fa troppo freddo, dovrò passare un paio di settimane svegliandomi sotto zero… Speriamo bene, oramai sono qui e non posso tirarmi indietro.
Dopo uova, pane tostato e marmellata, patate al forno e caffè nero e bollente sono pronto per partire.
Manca una cosa però. Ho uno zaino pesante e non ce la farò da solo a raggiungere Namche, per lo meno non in queste condizioni fisiche. Sono ancora debole dai due giorni di digiuno causa problemi allo stomaco. Ho bisogno d’aiuto a trasportare le mie cose, e i tre chili di cioccolato per gli altri quattro.
Decido per un portatore che mi accompagni per due giorni fino a Namche. Lì aspetterò i miei amici per qualche giorno e poi ripartiremo insieme dividendo il bagaglio di cinque persone per i tre portatori come originariamente pianificato.
Il mio portatore si chiama Tertustil. E’ un ragazzo di venticinque anni, alto circa la metà di me, ma che riesce a portare sulle sue spalle il doppio di quanto possa fare io.
In genere questi giovani trasportano 15-20 chili come niente fosse per una distanza maggiore e più velocemente di un normale escursionista. In discesa non scendono lentamente per paura che le ginocchia saltino o che le caviglie si possano arrotolare su se stesse. Loro corrono. In salita non spingono sui bastonicini da escursionismo e non si fermano a rifiatare. Loro ti aspettano in cima. Se c’è un passaggio stretto e scivoloso su uno strapiombo di centinaia di metri, non si fermano a pensare sul da farsi con un di titubanza e non vanno lentamente controllando ogni passo con cautela. Loro tirano dritti fischiettando e guardando sotto e in giro.
A queste persone va tutta la mia ammirazione per la loro forza e per il loro coraggio.
Lasciamo Lukla e… scendiamo. Ma come? Devo salire a 5000 metri e cominciamo il viaggio andando giù? Così è l’Himalaya. Si sale e si scende continuamente. E allora andiamo giù fino a 2200 metri e poi risaliamo. E poi giù e poi ancora su, e su e poi giù. Immagino sarà così per le prossime due settimane.
Il sentiero che seguiamo è largo e costeggia un torrente sulla sinistra. Passiamo attraverso il bosco che ogni tanto si apre in radure e villaggi fatti da una decina di case e qualche ostello.
I villaggi sono tutti uguali. Le case sono fatte in pietra e sono ad un piano. Raramente si vede qualche albergo su due piani. Le pietre servono anche a delimitare i contorni dei campi a forma di terrazze. Dopo ogni muro di pietra c’è un campo di un livello più basso rispetto al precedente. Tutto si ripete fino alla strapiombo che segnale la fine del villaggio.
C’è pochissima gente in giro. Non è stagione.
Fotografo le prime montagne attorno a me. Hanno nomi impronunciabili come Thamserku e vette innevate. Non sono ancora la ragione per la quale sono venuto qui, ma meritano lo stesso di essere fotografati.
Proseguiamo di buon passo lungo il sentiero non troppo difficile. Ogni tanto superiamo delle pietre mani con scolpite in alto rilievo le preghiere buddiste che a volte sono colorate di bianco e che bisogna tenere alla nostra destra, e delle ruote buddiste da far girare al nostro passaggio come preghiera e buon auspicio.
Prima di venire in Nepal pensavo che la maggior parte dei nepalesi fossero buddisti, considerando che ci sono moltissimi tibetani da queste parti, e invece ho letto e scoperto solo di recente che la religione più diffusa è l’induismo. I buddisti sono solo una piccola percentuale.
Ad un tratto mi trovo davanti ad un ponte sospeso. Sarà lungo una ventina di metri e largo un metro e mezzo. Cavi d’acciaio robusti dovrebbero infondere sicurezza. Ma non è così. Ci penso un attimo poi mi dico che tutti ci camminano sopra trasportando pesi enormi e che, alla fin fine, quella è l’unica strada e che da lì devo passare. Vado. Ci passo sopra con tranquillità. Mi guardo in giro e abbasso lo sguardo sulle rapide del torrente a un centinaio di metri sotto di me. Sembra di camminare attraverso l’aria. Il vento è forte e le bandiere-preghiera di cotone colorato che addobbano il ponte e i monti Himalayani si agitano come volessero volare via da questa valle fin su in cielo.
Effettivamente non c’è motivo di aver paura. Dopo la titubanza iniziale è una bella sensazione camminare sospesi nell’aria. Mi fermo al centro del ponte a fare delle fotografia quando sento dei campanelli che si avvicinano. Mi guardo indietro e vedo Tertustil che mi fa cenno di tornare rapidamente indietro. Perché? Sono forse le campane che segnano la mia ora? Mi giro dall’altra parte e c’è una fila di asini carichi di materiale che sta imboccando il ponte.
Agli asini, agli yak e agli jampa, un incrocio tra mucca e yak, non siamo ancora riusciti a spiegargli il diritto di precedenza. Se attraversi un ponte in Himalaya e uno di questi animale da trasporto comincia la sua attraversata dall’altra parte, non importa in quale punto sei, devi tornare indietro, fosse anche per l’intera lunghezza del ponte. Non c’è spazio per una persona e un animale. E loro, essendo più grossi di te, hanno la precedenza. Due persone, invece, si posso incontrare. Basta sporgersi un po’ verso l’esterno col corpo e non soffrire di vertigine facendo questo movimento.
Torno sui miei passi e lascio gli asini superarmi. Riprendo la strada del ponte e lo attraverso velocemente.
Superiamo un villaggio che si chiama Phakding, con un altro lunghissimo e altissimo ponte e ci fermiamo a pranzo a Toktok. Avanti! Mi verrebbe da dire, ma è mezzogiorno e lo stomaco vuole la sua parte.
Pranzo con una zuppa e dei momo vegetariani fatti in casa da un nepalese che ha passato un paio d’anni in Olanda a fare lavoretti dove capitava. Ora ha due figlie, la più grande di cinque anni mi ha fatto da cameriera portandomi il cibo e sparecchiando la tavola. Penso che a cinque anni io… non mi ricordo cosa pensavo a cinque anni… sicuramente era qualcosa a che fare con giocare a pallone o scappare dall’asilo eludendo la stretta sorveglianza di Suor Gigliola e soprattutto della temibile Suor Rosa Carmen.
Proseguiamo per Monjo, quota 2900 metri. Da lì sarà uno scherzo arrivare a Namche. Il cielo si rannuvola e temo pioggia. Ma scende solo freddo col calar del sole.
Prima di andare a letto presto chiacchiero tutta la serata con un gruppo di inglese che sta tornando a Kathmandu, ma che non sono andati oltre Tangboche, sotto i 4000 metri. Sono i primi turisti che incontro. Non è stagione.
- blog di Unprepared Andrea
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